In Italia le banche sono sempre più armate
Nel mondo le banche si armano sempre di più, soprattutto quelle italiane. La «regina» è la Banca Nazionale del Lavoro [BNL] seguono San Paolo, Unicredit, Antonveneta e Banco di Brescia. Finiti nel nulla i proclami di rinuncia ad appoggiare le industrie armiere dopo le campagne di pressione perché, secondo le regole della Ubi [Unione Banche Italiane], si può commerciare in armi fuori dalla Ue o dalla Nato.
Sono finalmente accessibili, grazie al settimanale Adista e alla Campagna di pressione alle «banche armate» i dati essenziali delle operazioni bancarie sull’esportazione, l’importazione e il transito dei materiali di armamento autorizzate dal Ministero dell’economia e delle Finanze nel 2008. Dopo che Unimondo ha presentato in anteprima nazionale il «Rapporto del Presidente del Consiglio sull’esportazione d’armamento» e i primi commenti della Campagna di pressione alle “banche armate e della Rete Italiana Disarmo, ieri il settimanale Adista ha reso noto e analizzato i dati della Relazione del Ministero dell’Economia e delle Finanze [Mef] sulle operazioni bancarie e la Campagna di pressione alle «banche armate» ha messo online sul suo sito la nuova tabella delle operazioni bancarie relative all’esportazione di armi del 2008 contenuta nella Relazione del Mef del 2009.
Ne emerge uno scenario di «grandi affari» per le «banche armate», soprattutto quelle italiane – scrive Luca Kocci di Adista. «Raddoppia il numero di operazioni finanziarie autorizzate dal Ministero dell’Economia, aumenta di due volte e mezzo la quantità di denaro ‘movimentata’, triplicano i ‘compensi di intermediazione’ che gli istituti di credito hanno incassato dalle aziende armiere e tornano saldamente in vetta alla le banche di ‘casa nostra’, comprese quelle – come Intesa – San Paolo e Unicredit –, che in passato, sulla spinta della campagna di pressione promossa dalle riviste Nigrizia, Missione Oggi e Mosaico di Pace, avevano annunciato di voler rinunciare ad attività legate al commercio delle armi. Informazioni riservate, quelle bancarie, perché il Governo, nonostante le richieste delle associazioni e delle riviste pacifiste, non ha inserito le tabelle sulle attività degli istituti di credito nel più sintetico Rapporto sull’export/import di armi presentato alla fine di marzo.
Nel corso del 2008 sono state autorizzate nell’insieme [export/import] ‘transazioni bancarie’ per conto delle industrie armiere per un valore complessivo di 4.285 milioni di euro [nel 2007 erano meno di in terzo pari a 1.329 milioni]. A questa cifra vanno poi aggiunti 1.266 milioni per ‘programmi intergovernativi’ di riarmo – come ad esempio il cacciabombardiere Eurofighter, a cui cooperano Italia, Germania, Gran Bretagna e Spagna -, quasi il doppio del 2007 quando la cifra si era fermata a 738 milioni. Un volume totale di ‘movimenti’ di oltre 5.500 milioni di euro, per i quali le banche hanno ottenuto compensi di intermediazione attorno al 3-5 per cento, in base al valore e al tipo di commessa, anche se il governo comunica esclusivamente i compensi relativi alle ‘esportazioni definitive’: 66 milioni di euro [nel 2007 erano 21 milioni]» – segnala Adista.
Il dettagliato articolo di Adista continua analizzando l’insieme di tutte le operazioni [import/export/transito] di appoggio fornito dagli Istituti di credito all’industria militare italiana. In questo contesto la «regina» delle «banche armate» è la Banca Nazionale del Lavoro [BNL] che, insieme a Bnp Paribas [di cui fa parte], ha incassato per conto delle industrie armiere 1.461 milioni di euro, soprattutto per operazioni relative ad esportazioni di armi italiane all’estero, sebbene in passato si sia impegnata a limitare le proprie attività relative al commercio di armi «unicamente a quelle verso Paesi Ue e Nato». Considerato che l’ultimo Bilancio sociale della BNL [anno 2007] riconferma la policy della banca di circoscrivere «la propria attività alle sole operazioni scambiate con Paesi Ue e Nato, debitamente autorizzate dai ministeri a ciò preposti» vien da chiedersi se davvero gli oltre 1,34 miliardi di euro relativi a sole operazioni per l’export assunte dal gruppo BNL-BNP Paripas rispecchino fedelmente quella direttiva e quali riscontro pubblico fornisca la BNL al riguardo.
Al secondo posto c’è Intesa-SanPaolo, con 851 milioni – a cui andrebbero aggiunti anche gli 87 milioni della Cassa di Risparmio di La Spezia, ormai parte del gruppo –, per lo più relativi a «programmi intergovernativi». Dati in apparente contraddizione con le dichiarazioni di due anni fa, in cui il gruppo, proprio per «dare una risposta significativa a una richiesta espressa da ampi e diversificati settori dell’opinione pubblica che fanno riferimento a istanze etiche» – cioè la campagna di pressione alle banche armate – annunciò di sospendere «la partecipazione a operazioni finanziarie che riguardano il commercio e la produzione di armi e di sistemi d’arma pur consentite dalla legge 185/90».
«Si tratta di transazioni relative a operazioni avviate prima dell’entrata in vigore del nostro codice di comportamento, esteso progressivamente alle banche entrate negli anni nel Gruppo Intesa Sanpaolo» – spiega ad Adista Valter Serrentino, responsabile dell’Unità Corporate Social Responsibility – CSR di Intesa-SanPaolo. «Operazioni che dureranno ancora a lungo, soprattutto quelle relative ai programmi intergovernativi, e che compariranno nei nostri bilanci anche in futuro. Con le aziende produttrici di armi finora abbiamo mantenuto solo gli impegni che avevamo precedentemente sottoscritto».
E passo indietro è anche quello di Unicredit che, dopo aver più volte comunicato di voler rinunciare ad appoggiare le industrie armiere ed aver in parte ridotto negli anni il suo coinvolgimento nel settore della finanza «armata», si piazza al terzo posto con 607 milioni di euro. Dopo una serie di istituti esteri [Deutsche Bank con 776 milioni, Societé Generale con 431, Natixis con 242], al settimo e ottavo posto si trovano due banche italiane che stanno scalando la Antonveneta, con 217 milioni, e Banco di Brescia, con 208 milioni, nonostante il gruppo Ubi [Unione Banche Italiane], di cui fa parte, a fine 2007 stabilì fra l’altro che «ogni banca del gruppo dovrà astenersi dall’intrattenere rapporti relativi all’export di armi con soggetti che siano residenti in Paesi non appartenenti all’Unione Europea o alla Nato» e che «siano direttamente o indirettamente coinvolti nella produzione e/o commercializzazione di armi di distruzione di massa e di altri sistemi d’armamento quali bombe, torpedini, mine, razzi, missili e siluri».
«La policy del gruppo non vieta le operazioni di commercio internazionale – spiega ad Adista Damiano Carrara, responsabile Corporate Social Responsibility – CSR di Ubi Banca – ma le disciplina prevedendo che il cliente della banca, ovvero l’impresa che chiede alla banca di assistere la sua operazione di commercio internazionale», non si trovi «in Paesi che non appartengano alla Ue o alla Nato, e questo divieto è pienamente rispettato». «La policy di Ubi – prosegue Carrara –, tenendo conto delle indicazioni fornite dalle principali organizzazioni umanitarie internazionali in merito ai Paesi in conflitto e al tasso di sviluppo umano, proibisce di effettuare operazioni in 95 Stati: nel 2008 "sono state effettuate alcune transazioni anche su Paesi vietati», ma «in esecuzione di autorizzazioni assunte negli anni precedenti, antecedentemente all’entrata in vigore della policy, e in corso di esaurimento».
A seguire le altre banche italiane: Banco di Sardegna [63 milioni], Banco di san Giorgio [30 milioni], Banca popolare commercio industria [22 milioni], Banca Valsabbina [17 milioni], Carige-Cassa Risparmio Genova e Imperia [11 milioni], Banca popolare Emilia Romagna [9 milioni], Banca popolare di Spoleto e Banca Popolare Etruria e Lazio [7 milioni], Bipop Carire [3 milioni], Bcc di Bientina e Banca popolare del Piemonte [1 milione] e una serie di banche con importi inferiori ai 500mila euro [Friulcassa, Credito Valtellinese, Banca Popolare di Milano e le Casse di Risparmio di Bologna e di Teramo].
«Da quando lo scorso anno, in fase di cambiamento di governo, è sparito, senza alcuna spiegazione, dalla Relazione della Presidenza del Consiglio il lungo e dettagliato elenco delle singole operazioni effettuate dagli istituti di credito è praticamente impossibile giudicare l’operato delle singole banche e valutare la rispondenza delle operazioni da loro effettuate alle diverse direttive che hanno emanato negli ultimi anni» – spiega ad Adista Giorgio Beretta, analista della Rete Italiana Disarmo e già coordinatore della Campagna di pressione alle ‘banche armate’ – La non pubblicazione di quell’elenco è una grave mancanza non solo per la nostra campagna e i suoi aderenti, ma anche per quegli istituti di credito che, in risposta alle pressioni della campagna, delle associazioni e dei loro stessi correntisti, hanno assunto direttive più restrittive – quando non totalmente escludenti – sulla fornitura di servizi all’esportazione italiana di armi. Senza quell’elenco, infatti, le loro direttive non sono comprovate dal riscontro ufficiale che solo la Relazione della Presidenza del Consiglio può fornire»
Per questo la Campagna di pressione alle «banche armate» rinnova con forza l’appello a tutte le associazioni e Ong, ma anche agli istituti missionari e religiosi, alle Caritas, alle diocesi e alle parrocchie e a tutti i correntisti di scrivere alla propria banca per chiedere una precisa e accessibile informazione in merito alle operazioni che le diverse banche stanno ancora svolgendo nonostante le direttive che da anni si sono date.
Allo stesso tempo la Campagna insieme con le associazioni della Rete Italiana Disarmo continuerà la pressione sul Governo perché venga ripristinata al più presto tutta l’informazione necessaria per garantire al Parlamento e alla società civile di valutare con attenzione e rigore le operazioni effettuate dagli istituti di credito in una materia cosi delicata come l’esportazione di armamenti.