Gran bazaar delle armi per regimi teocratici e dittature
Da 2 anni silenzio assoluto sulle banche usate per le operazioni
C’è un settore in Italia che non ha risentito della crisi: quello delle armi. Osservando i numeri, l’impressione è quella di essere capitati sulla pagina del ministero dell’Economia cinese. Perché la crescita è a doppia cifra, tipica di un Paese emergente. Siamo invece proprio in Italia, dove nel 2009 le esportazioni sono crollate del 20,4% rispetto all’anno precedente, il calo maggiore dal 1970. Vendiamo le “nostre” armi a Paesi dai regimi discussi come l’Arabia Saudita e la Libia di Gheddafi. Nell’anno appena trascorso l’industria militare italiana si è superata. Mentre il tessile arrancava sotto i colpi della concorrenza straniera (-23%) e il mercato dell’auto subiva gli effetti della recessione (34%), le società italiane attive nella produzione di armi hanno visto aumentare del 61% gli ordini in arrivo dall’estero.
Performance di gran lunga migliore rispetto ai più noti simboli del made in Italy, dal prosciutto San Daniele al Parmigiano Reggiano. Per capire quanto vale il mercato militare basta una cifra: nel 2009 il governo ha rilasciato autorizzazioni per esportare armamenti del valore totale di 4,9 miliardi di euro. Tutto questo senza contare gli 1,8 miliardi dei programmi intergovernativi, cioè i progetti fra più stati che hanno come destinatari i governi europei.
I dati arrivano dalla Presidenza del Consiglio, che ha pubblicato il rapporto sull’esportazione di materiali militari. Dai documenti emerge che il principale destinatario di armi italiane nel 2009 è stata l’Arabia Saudita, monarchia teocratica retta sui proventi del petrolio e sullo scarso rispetto dei diritti umani, come rilevato più volte da Amnesty International. Il primato dell’Arabia Saudita riguarda una commessa da oltre 1,1 miliardi di euro da parte della Reale Aeronautica Saudita per 72 caccia multiruolo Eurofighter Typhoon. Il committente generale è la britannica Bae System, già punita dal ministero della giustizia americano con una multa da 400 milioni di dollari per aver corrotto alcuni dignitari del re Abdullah. Che c’entra l’Italia con la multa? Niente, ufficialmente. La partecipazione italiana riguarda la fornitura dei 72 caccia, per i quali Alenia Aereonautica (gruppo Finmeccanica, controllato dal ministero dell’Economia) fornisce alcuni componenti che valgono, al momento, 1,1 miliardi di euro. Una commessa che ha permesso ad Alenia di guadagnarsi il primo posto nella classifica degli esportatori, seguita da Agusta Westaland (gruppo Finmeccanica), Avio (partecipata da Finmeccanica), Fincantieri (controllata dal ministero dell’Economia) e Selex Galileo (gruppo Finmeccanica). I principali clienti dell’industria militare italiana, fatta eccezione per Germania e Stati Uniti, si concentrano proprio tra Medio Oriente e nord Africa. Il valore dell’export verso quest'area corrisponde a quasi il 40% del totale. Tra i maggiori acquirenti, oltre all’Arabia Saudita, spiccano Qatar, Emirati Arabi Uniti, Marocco e la Libia di Gheddafi, diventato un partner privilegiato dell’Italia non solo in materia di immigrazione, come piace ricordare al governo.
Dei quasi 5 miliardi totali di autorizzazioni all’esportazioni di armi, più della metà (2,6 miliardi) riguardano i Paesi del sud del mondo. Una tendenza preoccupante, secondo Gianni Alioti, sindacalista della Fim Cisl e attento osservatore delle dinamiche del mercato militare: “Fino all’inizio degli anni 2000 l’export italiano era diretto soprattutto verso i Paesi Nato. Da allora si è invece iniziato a vendere soprattutto ai Paesi del sud del mondo, dove spesso si combattono guerre per l’accaparramento delle materie prime”. E’ il caso della Nigeria, ad esempio, dove da anni i guerriglieri del Mend combattono contro l’esercito regolare per i pozzi petroliferi sfruttati da diverse compagnie petrolifere occidentali, tra cui l’italiana Eni. E proprio la Nigeria, tra i paesi dell’Africa centro-meridionale, nel 2009 è stata la principale acquirente di nostri sistemi militari. Nel rapporto della presidenza del Consiglio è tutto chiaro: ci sono decine di tabelle che mostrano autorizzazioni, destinatari e committenti. Proprio come previsto dalla legge 185. Ne manca solo una: la tabella che riporta l’elenco dettagliato delle banche attraverso cui sono state realizzate le operazioni. Quella lista manca dal 2008, anno dell’entrata in carica dell’attuale governo. Spiega Giorgio Beretta, rappresentante della Rete Italiana Disarmo: “Lì c’era il nome della banca, il valore delle commessa e il paese destinatario. Incrociando quei dati con quelli del ministero degli Esteri si poteva capire che tipo di arma era stata fornita. Eliminando quella tabella il nostro lavoro è stato reso impossibile, sottraendo ai correntisti la possibilità di monitorare il comportamento della propria banca”. Un’idea ce la si può comunque fare. Secondo Ires Toscana, un ente di ricerca no profit, dal 2001 al 2008 più del 60% delle operazioni di incassi per esportazioni di armamenti italiani sono state effettuate da tre gruppi bancari: Bnp Paribas (2,3 miliardi), Intesa Sanpaolo (2,2 miliardi) e Unicredit (2 miliardi).