Industria Militare, il punto: le indagini della Magistratura e il ruolo di faccendieri, politici e militari…
L’indagine della magistratura sulle supposte tangenti della Finmeccanica pagate sia all’estero sia a uomini politici italiani, purtroppo, non deve sorprenderci.
Il settore dell’industria militare è strutturalmente atipico rispetto a quello civile, dove, semplificando, la concorrenza costringe le aziende a confrontarsi con il libero mercato nel quale, ad esempio, un’automobile utilitaria non può essere messa in vendita a 50.000 euro poiché non vi sarebbe nessun acquirente disposto a pagare una cifra così esorbitante. Nel campo della produzione bellica entrano in gioco diversi fattori: pochi acquirenti (per lo più i governi), poche aziende (il 90% del mercato mondiale è in mano ad una decina di paesi) e la variabile della sicurezza nazionale.
Ma andiamo per ordine. I pochi acquirenti sono appunto costituiti dalle forze armate nazionali e di queste non tutte sono in grado di acquistare sistemi d’arma sempre più sofisticati e costosi, come i cacciabombardieri F-35 (con capacità stealth, cioè invisibili ai radar) o sottomarini a propulsione nucleare o altro. Spesso, per aerei, portaerei, sottomarini ecc., si parla di poche decine di unità piazzate presso poche potenze in grado di avere bilanci robusti per sostenere tali sforzi economici (infatti, in Italia si stanno tagliando duramente le spese sociali, sanitarie e della formazione per racimolare i 15 miliardi di euro e oltre necessari ai 90 aerei F-35).
Le poche aziende che producono questi grandi sistemi d’arma nell’ultimo ventennio hanno proceduto a fusioni ed alleanze anche internazionali, proprio per sostenere le difficoltà produttive e i costi crescenti connessi a mezzi sempre più sofisticati. BAE, Thales, Eads, Finmeccanica sono i grandi gruppi europei che cercano di competere con i giganti statunitensi della Lockheed Martin, Boeing, Northrop Grumman, General Dynamics, Raytheon, L-3 Communications e United Technologies. Circa un milione e duecentomila persone sono occupate in queste prime dieci aziende mondiali, che si fanno una dura concorrenza. In parallelo vi sono molte altre aziende minori, per la maggior parte sempre collocate nei paesi più industrializzati, che producono sistemi d’arma sia tecnologicamente avanzati, sia meno sofisticati e complessi, come ad esempio le armi piccole e leggere (mitra, fucili, mine, ecc.).
A fronte di poche grandi aziende e di pochi acquirenti un ruolo importante lo svolge la cosiddetta sicurezza nazionale, per cui i governi e i vertici delle forze armate decidono di dotarsi di questo o quel sistema d’arma in quantità variabili. Se c’è una guerra, le necessità impellenti spingono ad acquistare quello che serve per vincere il conflitto. Ma se il conflitto non c’è, allora si comincia a parlare di valutazione, di percezione delle possibili minacce e si entra in una zona nebbiosa, dove tutto è indistinto e non è chiaro cosa serva esattamente. Per fare un esempio, mentre la NATO e l’UE affermano nei documenti ufficiali che le due più grandi minacce sono il terrorismo e la proliferazione nucleare, USA e paesi alleati decidono di produrre ed acquistare il cacciabombardiere F-35 più costoso della storia dell’aviazione militare. Serve un cacciabombardiere contro il terrorismo? Serve un cacciabombardiere con capacità nucleari a diminuire la proliferazione nucleare? L’ovvia risposta, pur negativa, non sembra fermarne il faraonico piano di acquisto.
A questo punto la vicenda si complica ancora di più: a volte si assiste ad una corsa tecnologica fine a se stessa, tesa spesso a garantire le commesse a queste aziende, altre volte i vari sistemi d’arma disponibili sul mercato sono simili e la concorrenza porta le aziende a ricercare mediatori in grado di trovare il contatto giusto per concludere l’affare. L’italiana Finmeccanica, nel corso dell’ultimo ventennio, si è andata sempre più concentrando sul settore militare e ritirandosi gradatamente dal settore civile (energie alternative, trasporti ecc.).
Nel comparto bellico, però, faccendieri, uomini politici, militari, ecc. entrano tutti in gioco in una partita complessa che non di rado porta a veri e propri episodi di corruzione presso l’acquirente e altrove per riuscire a piazzare i propri prodotti.
L’Italia, come altri paesi, non è nuova a queste vicende. Anni fa, una vicenda di tangenti della Lockheed arrivò a lambire uomini politici ai massimi livelli governativi. Successivamente ci fu una vicenda mai chiarita di finanziamenti concessi dalla filiale BNL di Atlanta (USA) a Saddam Hussein per armamenti. Nel 1974 un film coraggioso di Alberto Sordi, “Finché c’è guerra, c’è speranza”, mostrava la corruzione e le connivenze del settore, successivamente nel 2005 messe ancor più in evidenza da “Lord of War” con Nicholas Cage protagonista. A voler ricordare tutte le vicende poco chiare del settore, servirebbe almeno un centinaio di pagine.
Al di là dei riscontri della magistratura, un dato è certo: il commercio delle armi è profondamente esposto a scelte spesso discutibili, all’assenza di trasparenza, alla corruzione. Quello che inquieta ancor di più, in questa vicenda, è il silenzio dell’azionista di maggioranza (32,4%) della Finmeccanica, il ministro del Tesoro, nel momento in cui il governo cerca di varare una legge proprio sulla corruzione. Ancora una volta, qualcosa non va.
I 10 maggiori gruppi industriali militari
Vendita di armamenti (mn $) Profitti (mn $)
1 Lockheed Martin 35.730 2.926
2 BAE Systems (UK) 32.880 –1.671
3 Boeing 31.360 3.307
4 Northrop Grumman 28.150 2.053
5 General Dynamics 23.940 2.624
6 Raytheon 22.980 1.879
7 EADS (trans-Europe) 16.360 732
8 Finmeccanica (Italy) 14.410 738
9 L-3 Communications 13.070 955
10 United Technologies 11.410 4.711
Maurizio Simoncelli (Vicepresidente Istituto di Ricerca Internazionali Archivio Disarmo)