Disarmare l'economia, costruire la pace: l'analisi e la ricetta di Sbilanciamoci
DISARMARE L’ECONOMIA, COSTRUIRE LA PACE
La crisi economica e la spesa militare
Nei mesi scorsi il ministro della Difesa e ammiraglio della Marina, Giampaolo Di Paola, ha rivendicato le scelte del governo italiano di investimento nella difesa come una particolare forma di “keynesismo militare”. Spendere nei prossimi anni 14 miliardi di euro per 90 cacciabombardieri F35 e oltre 200 miliardi per la nuova riforma delle Forze armate, così come disegnata dal disegno di legge governativo presentato nella scorsa primavera, farebbe ripartire l’economia, darebbe nuove opportunità alle imprese, creerebbe nuovi posti di lavoro.
Di Paola non è un “liberal”, né – probabilmente – un attento lettore di Stiglitz e Krugman, né tanto meno di Keynes, che nei libri delle accademie militari è difficile trovare citato. È semplicemente il difensore degli interessi spiccioli di una corporazione – forse si può definire “casta” – quella dei militari. Una corporazione che in questi anni, nonostante la crisi, è stata a malapena sfiorata dai tagli alla spesa pubblica.
Non siamo in guerra (almeno che qualcuno non la auspichi sperando così di ritirare su le sorti dell’economia) e quindi non c’è da chiamare in causa il “keynesismo militare”: quello che è successo 70 anni fa è fortunatamente irripetibile e molte ricerche recenti dimostrano che mediamente l’investimento nel militare ha un impatto inferiore rispetto all’investimento del settore civile. L’Università del Massachussetts ha stimato che con un miliardo di dollari di investimenti si creano nel settore della difesa 11mila posti di lavoro, ma ben 17mila nel settore delle energie rinnovabili e 29mila nel settore dell’istruzione.
Di Paola e altri generali hanno detto che la produzione degli F35 porterà circa 10mila posti di lavoro nuovi: una colossale balla, visto che a regime non saranno più di 7-800. I benefici ce l’hanno invece gli affaristi e i faccendieri di Finmeccanica e delle lobby a questa collegate. Monti ha scelto di non applicare il rigore ai militari, ma solo ai lavoratori, ai pensionati, agli insegnanti, ai precari. Anche nelle politiche di rigore non c’è stata equità. Si è evitato di toccare gli interessi di una corporazione così forte e la Spending Review ha solo ritoccato una spesa tanto alta che, nel frattempo, si è “rimodulata” (per usare l’espressione di Di Paola) verso gli investimenti nei sistemi
d’arma. In sostanza, i soldi risparmiati dalle mancate riassunzioni del personale in uscita sono stati destinati ai carri armati e ai caccia bombardieri.
Si spende troppo per le Forze armate in Italia: troppi sprechi, troppe spese inutili, troppi soldi per le armi, troppi privilegi per una casta che in questi anni ha saputo ben difendere i propri interessi corporativi e rinviare quella necessaria riforma della Difesa che manca da troppo tempo. Doveva essere la crisi economica a scoperchiare la pentola.
Il ministro della Difesa Di Paola ha ammesso in qualche modo la necessità di una riduzione di alcuni costi della difesa (in particolare del personale: si è parlato di una riduzione programmata di 30mila unità in 10 anni) in modo tale da avere più soldi da investire nell’efficienza (cioè armi) delle Forze armate. In realtà, bisognerebbe ridurre almeno il doppio di quanto previsto da Di Paola. Le nostre Forze armate potrebbero benissimo fare a meno di 60mila ufficiali e soldati, senza venir meno agli obblighi costituzionali (la “difesa della patria”) e agli impegni internazionali nelle missioni “di pace” (tra cui quella “di guerra” dell’Afghanistan). Mai come in questo momento bisognerebbe “svuotare gli arsenali e riempire i granai”. Purtroppo il nostro governo sta facendo l’opposto. E pochi si rendono conto, e quasi nessuno ne parla, che mentre vengono salvaguardati gli interessi e i privilegi della casta militare, i fondi per il Servizio Civile sono passati in pochi anni da 300 a 71 milioni: decine di migliaia di ragazzi non potranno svolgere un servizio che, utile alla comunità, ci fa risparmiare un sacco di soldi per tutti quei servizi sociali che vengono erogati grazie alla loro presenza.
Dalla crisi si esce con un nuovo modello di sviluppo di cui fa integralmente parte la riconversione civile dell’economia militare.
Disarmare l’economia, renderla ecologicamente sostenibile e redistribuirne in modo più equo la ricchezza sono tre elementi di un paradigma e di un modello di sviluppo radicalmente diversi da quelli del passato. Quante volte, durante le riunioni dei Forum sociali mondiali ed europei, si è affermato che neoliberismo e guerra sono due facce della stessa medaglia. Ecco perché disarmare l’economia è un modo per contribuire a rendere più equo e sostenibile il nostro modello di sviluppo.
Il cosa produrre e il cosa consumare per un nuovo modello di sviluppo impone di archiviare definitivamente un’idea di modello militare-industriale che è nello stesso tempo fonte di sofferenze umane, spreco di risorse e produttore di quelle “esternalità negative” (distruzioni, devastazioni, inquinamento) che comportano poi dei costi di soccorso e di ricostruzione immani. Serve a tal fine un grande disegno di riconversione industriale (fatto di risorse, ma soprattutto di volontà politica e di programmazione degli interventi) dalle produzioni militari a quelle civili che creano più posti di lavoro, soddisfano bisogni essenziali per le popolazioni, non determinano costi diretti o indiretti per la comunità.
In questo contesto disarmare l’economia e riconvertirla a fini ecologici e sociali non è semplicemente lavoro di pacifisti e antimilitaristi, ma obiettivo più generale di chi lavora per il cambiamento, per un modello di sviluppo diverso, per stili di vita nuovi, per la cooperazione e la solidarietà. Cambiare produzioni e consumi dentro la cornice di un nuovo modello di sviluppo e di riconversione industriale significa ad esempio chiedere alle industrie di cacciabombardieri di produrre aerei per spegnere gli incendi; o a quelle che fanno radar e sistemi di puntamento di produrre i macchinari per fare le Tac; o a quelle che fanno camion militari di fare pullman per il trasporto pubblico; o a quelle che producono sistemi di precisione o apparecchiature elettroniche per i sistemi d’arma di fare i pannelli fotovoltaici; o a quelle che fanno gli elicotteri da combattimento di farne invece di quelli (senza mitragliatrici) che servono per l’elisoccorso. Gli esempi si sprecano.
Certo, per fare tutto questo servono risorse, direttrici di politica industriale, investimenti e incentivi: ma questi non mancherebbero se le scelte di politica economica e di destinazione della spesa pubblica fossero diverse. In sostanza bisogna spostare risorse, interventi, sostegno dal militare al civile. Si tratta, di fronte a questa crisi, di scelte non più rinviabili.
Le spese militari nel Bilancio 2013
Con l’avvio dell’iter parlamentare del Bilancio di Previsione dello Stato per l’anno finanziario 2013 e del bilancio pluriennale per il triennio 2013-2015, il governo Monti mostra la sua visione del ruolo dello stato e della spesa dei ministeri per i prossimi tre anni. In un contesto di riduzione della spesa pubblica e dei servizi ai cittadini, sanciti da tagli sia ai ministeri, sia agli enti locali, sia da provvedimenti come la Spendine Review e manovre di stabilità che si sono concretizzate in tagli lineari nello stile del ministro Tremonti, risalta il ministero della Difesa che riesce a mettere a bilancio un aumento del proprio budget nel prossimo triennio. Il bilancio del ministero passa infatti dai 19.962 milioni dell’esercizio 2012 a 20.935 di euro nel 2013, fino a 21.024 milioni di euro nel 2015.
In tre anni, il ministero della Difesa aumenta del 5,3% le proprie risorse, pari a più di un miliardo di euro. L’aumento è superiore ai tagli previsti dalla Spending Review per il ministero: 236,1 milioni nel 2013, 176,4 milioni nel 2014 e 269,5 milioni di euro nel 2015.
I tagli della Spending Review non risultano dalla Legge di Bilancio quanto dal Decreto di Stabilità in discussione in cui debbono essere specificati. La Legge del Bilancio di previsione, nel complesso delle spese di competenza per ogni singolo ministero, mostra come nel triennio 2013-2015 la tendenza sia quella di mantenere il rigore generale per contenere la spesa pubblica.
Questa visione è confermata dalle riduzioni di budget per alcuni ministeri tra cui: Sviluppo economico, con una riduzione di più del 30% delle risorse (da 13,9 miliardi nel 2013 a 10 miliardi nel 2015); Istruzione che nel 2015 perde circa 700 milioni di euro, o il ministero della Salute (100 milioni di euro in meno nel 2015). Invece, il ministero della Difesa aumenta le risorse a disposizione, e come affermato nella nota integrativa del bilancio, con questo provvedimento il governo compirebbe i primi passi verso le parole chiave del futuro della difesa ovvero ammodernamento, riduzione degli organici e maggiori investimenti, ma in realtà nella freddezza dei prospetti contabili si nota il mantenimento delle scelte di spesa tradizionali.
Il modello da seguire per il governo è esplicitato nella nota aggiuntiva 2012 del ministero della Difesa, in cui il ministro indica la criticità del peso eccessivo delle spese di personale sul totale del budget, mentre il modello da seguire dovrebbe consistere in una ripartizione delle spese con 50% personale, 25% operatività e 25% investimenti. La lettura delle tabelle della Legge di Bilancio dell’annesso del ministero della Difesa non va in questa direzione, anzi mostra la stabilità dell’attuale ripartizione dei costi, concentrata per oltre il 70% sul personale fino al 2015.
Per quanto riguarda gli investimenti, anch’essi in crescita, in un quadro in cui tutti i ministeri sono stati costretti a ridurre la spesa per investimenti, rimangono le perplessità avanzate da molti sull’opportunità di alcune scelte strategiche, come gli F35, che sempre più costose “ingessano” il bilancio per diversi anni. Proprio il caso degli F35 è emblematico della visione “conservatrice” del ministero che difende scelte fatte in passato anche nella prospettiva di migliorare l’efficienza delle risorse a disposizione.
La spesa militare destinata ai lavoratori del ministero, civili e militari, oltre al complesso militare nazionale, che ricade quasi per intero nel perimetro di un singolo gruppo imprenditoriale, è l’asse su cui il governo punta per aumentare la domanda interna, evitando lo stesso rigore riservato agli enti locali e a servizi pubblici strategici come scuola e sanità. Il modello di difesa, aldilà dei limiti della Legge di Bilancio, prevede da oggi al 2024 la riduzione degli organici dell’esercito di 40mila unità (da 190mila a 150mila soldati, anche se oggi il numero complessivo dell’esercito non supera le 183mila unità) e la riduzione del personale civile a 20mila unità, dalle quasi 30mila in servizio oggi. La visione del ministero consiste nel risparmiare risorse di personale per raggiungere un modello di spesa meno orientato alla manodopera e più agli investimenti.
Il raggiungimento degli obiettivi di riduzione degli organici prevede una serie di salvaguardie per il personale in esubero, che in molti casi transiterebbe nelle altre amministrazioni dello stato con problemi di competenze e con un aumento della spesa pubblica. Inoltre, nella Legge di Bilancio ritorna il tema della presenza militare italiana all’estero, voce peraltro fuori dai capitoli di spesa del ministero della Difesa. Il governo Monti nei primi mesi di mandato ha subito rivisto al ribasso il costo dell’impegno militare italiano all’estero portando l’onere a circa 750 milioni di euro annui.
Il ritiro dall’Iraq, assieme alla cancellazione di alcune missioni minori, ha ridotto l’impegno italiano a circa 6600 unità (oltre 2ooo in meno rispetto al 2007). Per il futuro lo stesso governo Monti impegna per il 2013 oltre un miliardo di euro per le missioni militari all’estero, lanciando un segnale preoccupante per quanto riguarda sia gli oneri, sia le scelte di politica estera e di ricorso allo strumento militare già per il 2013. Come per il budget del ministero, si nota anche per le missioni una forza immanente del mantenimento della spesa, che seppure abbia conosciuto qualche battuta d’arresto nei momenti più critici della gestione del governo, ha già ripreso quota in prospettiva, con modelli di costi tradizionali e non certo nella visione dell’ammodernamento e della riduzione degli organici. Il miliardo in più di spesa pubblica destinato alle spese militari se dirottato su altri obiettivi come istruzione, ricerca e sviluppo economico mostrerebbe un maggiore impatto nel contrastare il declino economico del paese.
Proprio il mantenimento del programma F35, decantato per le ricadute sul territorio, mostra come, a fronte di investimenti miliardari, lo sviluppo locale ottenga solo benefici marginali, mentre l’investimento delle stesse risorse in settori civili, come gli asili nido, non solo genererebbe una maggiore quantità di occupazione diretta ma migliorerebbe la qualità del mercato del lavoro grazie ai benefici che si concentrerebbero nel meridione e per le categorie più colpite dalla crisi: le giovani donne.
Il Servizio Civile
Quando nel novembre 2011 fu costituito il governo Monti, una delle sorprese più intriganti e portatrici di aspettative fu la costituzione del ministero Cooperazione Internazionale e Integrazione, affidato ad Andrea Riccardi.
Sembrava giunto il momento di collocare il Servizio Civile Nazionale nel suo alveo storico della promozione della pace in modo nonviolento, collegato in modo forte sul piano politico e progettuale alla cooperazione internazionale e sul versante interno ai temi dell’integrazione, della cittadinanza. In tal modo, la valenza educativa e formativa rivolta ai giovani sarebbe stata valorizzata a vantaggio di tutto il Paese.
Un anno dopo, le ombre dominano sulle luci. Dopo una fugace apparizione pubblica a marzo 2012, in materia di Servizio Civile Nazionale è calato il silenzio nell’agenda politica di Riccardi. La politica è ritornata alla ribalta alla fine di luglio quando con l’art. 10 della legge del 7 agosto 2012, n.135 sono stati soppressi molti organi collegiali compresi nell’articolo 68, comma 2, del decreto legge del 25 giugno 2008, n.112, convertito, con modificazioni, dalla legge del 6 agosto 2008, n.133. In quell’elenco è compresa anche la Consulta Nazionale del Servizio Civile, organo previsto fin dalla legge dell’8 luglio 1998, n.230 “Nuove norme in materia di obiezione di coscienza al servizio militare” e confermato dalla legislazione in materia di Servizio Civile Nazionale.
Nella Consulta Nazionale, composta da 15 membri, sono presenti tutti gli attori che permettono all’Amministrazione statale di operare: le Regioni e Province Autonome, le Amministrazioni centrali dello Stato (nel caso specifico il Dipartimento di Protezione Civile), i cosiddetti enti accreditati, dall’Anci alla Cnesc, alle principali organizzazioni del terzo settore, quattro rappresentanti dei giovani in Servizio Civile Nazionale. I costi di questo organismo sono stati nel 2010 pari a 861,20 euro (3 sedute) e nel 2011 a 2.458,01 euro (3 sedute).
A tutt’oggi, nonostante le rassicurazioni fornite, è decaduta la Consulta e il sistema del Scn è privo di un organo che permetta la partecipazione dei vari soggetti alla programmazione e regolazione del Scn.
Tutta la vicenda si iscrive nel nodo più ampio di disconoscimento del governo Monti dell’ interlocuzione con la società civile organizzata democraticamente e, vera beffa, con i giovani che stavano realizzando dal 2008 un interessante percorso di partecipazione ed esercizio di rappresentanza. Sul piano economico, dopo la batosta dei tagli effettuati a ottobre 2011 con la Legge di Stabilità 2012-2014 Berlusconi- Tremonti (riduzione di 44.183,00 milioni di euro sui 112.985,00 previsti per il 2012) che produssero il blocco del Servizio Civile Nazionale e lo slittamento di molti mesi nell’avvio dei progetti di Scn, con danni ai cittadini, il ministro Riccardi è riuscito nel 2012 a reperire 50.000,00 milioni di euro straordinari. I fondi provengono per 20.000,00 milioni dai tagli alla programmazione dell’ex Dipartimento Gioventù, e per 30.000,00 milioni di euro dalla legge del 7 agosto 2012, n.131. A queste risorse si aggiungono 3.000,00 milioni, tratte sempre dall’ex Dipartimento Gioventù, per finanziare due bandi straordinari, uno per le popolazioni colpite dal sisma del maggio/giugno 2012 e uno per le popolazioni colpite dal sisma del 2009.
Sarà quindi importante conoscere l’ammontare dei residui al 31 dicembre 2012 per sapere quanti giovani potranno essere avviati al servizio nel 2013, al netto dello stanziamento della Legge di Stabilità 2013-2015. Su questo versante la proposta governativa depositata con l’Ac 5534 bis è negativa. Infatti vengono addirittura diminuite le risorse stanziate dal precedente governo Berlusconi.
Nel 2013 sono previsti 71.214,00 milioni con un taglio di 5.041,00 milioni (-6,61%) sulle risorse previste dal governo precedente, nel 2014 sono previsti 76.251,00 milioni con un taglio di 7.546,00 milioni (-9,00%).
Con queste risorse, sul piano pratico diventa un miraggio avviare al servizio i circa 19.000 giovani annunciati a giugno 2012, e sul piano politico continua la linea dello smantellamento progressivo del Scn, reso di fatto sempre più elitario.
Tutto questo mentre, anche per effetto della crisi che sconvolge le condizioni giovanili, nel 2011 ci sono state 75.794 domande per 16.325 posti. Il tema del passaggio a una dimensione di massa, a cui chiamare, oltre lo Stato, anche altri soggetti al finanziamento, diventa ineludibile, se vogliamo evitare lo snaturamento del servizio civile stesso, elitario tanto da apparire un privilegio.
Per certi versi è un segno dei tempi che proprio in questo 2012 da alcune parti sia stato riproposto il servizio civile obbligatorio ed europeo. La sfida è quella di fare del Scn, su base volontaria, il nocciolo duro capace di preparare le infrastrutture per una sfida così impegnativa e di far maturare il necessario consenso sociale. È in questa prospettiva che serve stanziare nel 2013-2015 almeno 200 milioni l’anno per portare a circa 40.000 unità il contingente annuo.
DISARMARE L’ECONOMIA, COSTRUIRE LA PACE.
LE PROPOSTE NEL DETTAGLIO
Riduzione delle spese militari. È possibile la riduzione di 4 miliardi di euro della spesa militare. Questo potrebbe avvenire grazie alla riduzione degli organici delle forze armate a 120 mila unità e a un’integrazione – con economie di scala – dentro la cornice europea e delle Nazioni Unite, naturalmente prevedendo un ruolo per le forze armate legato ad autentici compiti di prevenzione dei conflitti e mantenimento della pace, rifiutando ogni interventismo militare.
Riduzione dei programmi d’arma. Chiediamo al governo italiano di cancellare il programma della produzione dei 90 cacciabombardieri Joint Strike Fighter e di cancellare i finanziamenti previsti per il 2013 per la produzione dei 4 sommergibili Fremm e delle due fregate Orizzonte. Risparmio previsto: 800 milioni di euro.
Riconversione dell’industria militare. Chiediamo una legge nazionale per la riconversione dell’industria militare e la costituzione di un fondo annuale di 200 milioni di euro per sostenere le imprese impegnate nella riconversione da produzioni di armamenti a produzioni civili.
Ritiro dall’Afghanistan. Chiediamo il ritiro delle truppe italiane
dalla missione in Afghanistan (il ruolo e la presenza dell’Isaf sono strettamente intrecciati a Enduring Freedom in una funzione bellica e di lotta militare al terrorismo) e da tutte quelle missioni internazionali che non abbiano la copertura e il sostegno delle Nazioni Unite. Questa misura farebbe risparmiare 740 milioni di euro alle casse pubbliche.
ATTIVITÀ DI PACE
Corpi di pace. Si propone lo stanziamento di almeno 20 milioni di euro per dar vita a un primo contingente di corpi civili di pace, destinati alla formazione e alla sperimentazione della presenza di 500 volontari da impegnare in azioni di pace non governative nelle aree di conflitto o a rischio di conflitto. Si tratta di dare forza a forme di interposizione e di peace keeping civile che abbiano una cornice e un riconoscimento istituzionale.
Servizio Civile Nazionale. Oggi il Servizio Civile Nazionale corre gravi rischi per mancanza di finanziamenti e decine di migliaia di giovani rischiano di non poter fare questa esperienza. La Legge di Stabilità assegna al Servizio Civile Nazionale solo 71 milioni di euro, che a malapena garantiranno gli impegni già presi. Proponiamo lo stanziamento di 200 milioni di euro aggiuntivi per il Servizio Civile Nazionale, al fine di consentire nel 2013 l’avvio di 40.000 volontari in servizio, ma soprattutto per iniziare a investire nella qualità del servizio civile con la programmazione, formazione, il servizio civile all’estero.
Istituto per la pace. Al pari di altri paesi (come la Svezia e la Norvegia) che hanno istituti di ricerca sui temi della pace prestigiosi e riconosciuti internazionalmente, si propone il finanziamento, con 7 milioni di euro, di un istituto indipendente di studi che possa realizzare ricerche a sostegno della pace e del disarmo.