Bombe made in Italy
Pistole. Fucili. Elicotteri. Il settore delle armi vive una stagione di successi. Anche grazie alla politica del governo. In un libro luci e ombre di un mercato in espansione. Colloquio con Riccardo Bagnato e Benedetta Verrini
Un piatto di spaghetti con una pistola immersa nel pomodoro. La copertina del libro "Armi d'Italia" sfrutta l'immagine celebre del settimanale tedesco "Der Spiegel" per ritrarre stavolta non l'italia degli anni di piombo, ma l'Italia che fabbrica piombo. «Il made in Italy non è solo cibo e moda», spiegano i due autori Benedetta Verrini e Riccardo Bagnato, «ma anche fucili e bombe». I due giornalisti lavorano nella redazione del settimanale "Vita", protagonista delle campagne per il disarmo. Ma questo libro in uscita per Fazi (300 pag., 14,50 euro) non è un pamphlet militante, ma un'inchiesta sul mercato e i suoi operatori. Come se trattassero di lavatrici, Verrini e Bagnato descrivono i produttori italiani, i loro clienti, i mediatori e le banche che appoggiano i pagamenti (in testa il gruppo Capitalia). L'obiettivo, spiegano gli autori, «è la trasparenza. Solo zosì ci sarà una presa di coscienza collettiva sui fenomeno delle armi.»
L'ltalia è un grande produttore di armi. Eppure pochi sembrano accorgersene. Perché?
«L'italia è il secondo esportatore al mondo di armi leggere, che si vedono meno ma causano 500 mila morti ogni anno. Secondo l'ultimo rapporto, l'Italia esportava armi leggere come pistole, carabine, fucili e mitragliatori per 300 milioni di dollari, contro i 740 milioni degli Stati Uniti. Alla scarsa visibilità interna corrisponde però una grande avanzata dell'Italia all'estero. Per fare alcuni esempi, secondo l'ultima relazione del governo in materia di armi, l'Italia ha aumentato le esportazioni del 40 per cento. E italiano Pierfrancesco Guargaglini, presidente dell'Associazione europea dei produttori, un compatto che dà lavoro a 600 mila persone. Ed è italiano anche il generale Nazzareno Cardinali che dirige l'Occar, il consorzio transnazionale di sei paesi europei produttori di armi».
Forse si parla poco della nostra industria bellica perché le armi leggere comprendono quelle vendute alle Polizie.
«Noi non esportiamo solo le pistole Beretta per i poliziotti americani. Nell'ultima relazione si legge che i nostri primi tre acquirenti sono la Cina e la Malesia, che non sono modelli nel rispetto dei dìritti umani, e la Grecia. Inoltre, a leggere il rapporto "Small Arms Survey 2004" si scopre che tra i nostri maggiori acquirenti c'è anche il Congo, dilaniato da una guerra feroce, e altri sei paesi che non rispettano i diritti umani».
Nei libro raccontate il successo della campagna contro le mine. Oggi l'Italia non produce e non usa più le mine. Però ora puntate il dito contro le bombe cosiddette cluster. Perché?
«Le cluster bombs sono ordigni lanciati dagli aerei o da terra che si frammentano in centinaia di piccole munizioni destinate a esplodere durante la caduta. In realtà, quasi mai esplodono tutte e quando arrivano a terra si trasformano in piccole mine. In Iraq le forze alleate hanno fatto largo uso delle cluster: tra marzo e aprile del 2003. ne hanno lanciate 13 mila, contenenti circa 2 milioni di suhmunizioni. Giuliano Sgrena, con le sue fotografie, aveva denunciato i danni di queste bombe sui civili e sui bambini. Probabilmente non erano bombe italiane, ma l'Italia resta uno dei 57 paesi che
ancora ha nei suoi arsenali le cluster. Inoltre, secondo un rapporto di Human Rights Watch, ci sono ancora due società italiane che le producono: la Simmel e la Snia Bdp».
Quali sono le maggiori aziende di armi italiane?
«La società pubblica Finmeccanica controlla da sola sette aziende tra le prime dieci del settore. Tra queste spicca la Galileo, che ha venduto sistemi di puntamento per un valore di 200 milioni di euro destinati ai carrri armati siriani ma - secondo gli Stati Uniti - Damasco li avrebbe poi girati a Saddarn. Ora Galileo sta costruendo l'apparato ottico del supercaccia americano. Ci sono poi Alenia (aerei); Oto Melara (artiglieria), Wass (siluri); Marconi Selenia (comunicazioni) e Agusta (elicotteri).Ci sono anche realtà esterne a Finmeccanica, come la Microtecnica controllata dalla multinazionale americana Utc, e la Oerlikon-Contrayes, controllata dai tedeschi della Rheinmetall DeTec. Mentre la Fiat ha accelerato la sua uscita dal mercato con la vendita di Fiat Avio al fondo Carlyle e a Finmeccanica nel 2003. Questa operazione indica un'altra tendenza in atto: l'avvicinamento agli americani»
Quanto influisce la politica del governo Berlusconi sulle esportazioni e sulle alleanze delle nostre aziende belliche?
«Moltissimo. Basti pensare che una società italiana, la Agusta, produrrà l'elicottero del presidente degli Stati Uniti. La vittoria di questa gara è solo il primo passo per entrare nel mercato Usa. La politica estero dell'Italia è determinante per acquisire commesse. Non è un caso se la Cina è tra i nostri primi acquirenti. Il presidente Ciampi nel dicembre 2004 è andato a Pechino anche per dire al presidente Hu Jintao che "l'Italia guarda con favore all'abolizione dell'embargo delle armi verso la Cina»